Censo (contratto)

Livre terrier (libro dei censi) di Fiume, del 1575; su questa pagina, una lista di beni materiali (uova, galline, giornate di fieno, etc.) che devono essere consegnati come pagamento del canone per un contratto di censo

Il censo (dal latino census), o censuo, era un tipo di contratto diffuso soprattutto nel Medioevo e nell'età moderna. Frequentemente utilizzato nella Penisola iberica e in Francia durante l'ancien régime, oggi è per lo più in disuso.

Con un contratto di censo una persona ("censitario", il debitore) contraeva l'obbligazione di pagare periodicamente ad un'altra persona ("censalista", il creditore) una certa quantità di denaro ("rendita", "canone", nella terminologia antica gli equivalenti "pensione" o "pigione"), come controprestazione per la trasmissione di un capitale mobile (nel "censo consegnativo") o del dominio utile di un bene immobile (per esempio nel "censo enfiteutico"). In altri casi, il contratto di censo poteva prevedere che il creditore "censalista" trasferisse un capitale in denaro al debitore "censitario" e in cambio potesse godere della rendita dei raccolti di un certo terreno per un arco di tempo specifico.[1]

Spesso il debitore "censitario" gravava una sua proprietà della responsabilità del denaro e del capitale, come garanzia del pagamento: normalmente questa proprietà era la casa comprata con il capitale che aveva ricevuto dal creditore "censalista"; il contratto di censo era quindi paragonabile all'attuale mutuo ipotecario, tranne per il fatto che il debitore conservava pieni diritti sull'immobile gravato. Un contratto di questo tipo trasferiva l'utilizzo della terra al "censitario", che pagava le rendite fino a quando la terra in questione non tornava nella disponibilità del proprietario "censalista". Se il censo era "redimibile", il debitore "censitario" poteva liberarsi dal censo mediante la restituzione dell'intero capitale che aveva ricevuto: in questo modo il censo veniva estinto.

In alcuni contratti di censo il tasso di interesse era chiaramente dichiarato, in altri non lo si indicava esplicitamente. L'interesse veniva riconosciuto come compensazione per un utilizzo alternativo del capitale. La locuzione latina lucrum cessans ("un introito che viene meno") faceva riferimento a quel rendimento che poteva essere guadagnato su una somma di denaro che si sarebbe potuta investire in modi differenti: tale concetto giustificava la presenza di un equo tasso di interesse come compensazione del prestito, considerato perciò non usurario. I contratti di censo medioevali fornivano quindi un modello chiaro per il carico di interessi equi su un capitale concesso in prestito.[1]

«Fino alla metà del Cinquecento i tassi di interesse si mantennero dovunque su livelli elevati, oscillando tra il 10% e il 15%. In seguito iniziarono a diminuire gradualmente, fino a raggiungere la soglia del 3% all'inizio del XVIII secolo. L'interesse corrisposto sui prestiti pubblici rientrava a pieno titolo nella più ampia dottrina sull'usura, che aveva già mostrato in proposito alcune caute aperture sin dai tempi di papa Innocenzo IV, soprattutto nel caso di prestiti accesi per l'utilità della Chiesa. San Bernardino da Siena riteneva lecita l'emissione del debito pubblico, se lo scopo era rivolto al bene comune. [...] La dottrina trovò poi ulteriori conferme da parte di alcuni interventi pontifici, a partire dalla bolla di Niccolò V del 1452, che in relazione ai censi dichiarava l'ammissibilità delle rendite provenienti da fonti diverse dai beni immobili. Nel 1569, la bolla Cum onus di Pio V disciplinava il censo consegnativo, prescrivendo l'atto notarile e includendo tra le fonti considerate legittime per il pagamento degli interessi anche le rendite fiscali, a condizione che i cespiti fossero esattamente designati. In materia, la dottrina ufficiale della Chiesa era dunque definita rigidamente. Un manuale per confessori pubblicato nel 1603 prendeva in considerazione ogni possibile ipotesi, elencando minuziosamente tutte le forme conosciute di censo con le relative procedure ammesse dalla Chiesa.[2]»

Normalmente le legislazioni esigevano (ed esigono tuttora in quei contesti in cui questo tipo di contratto è ancora previsto) una scrittura pubblica per la costituzione di un censo. La rendita censuale era inalienabile ed era tassata come reddito da bene immobile; l'imposizione era proporzionale, secondo una certa aliquota, alla rendita stessa e al valore originario del bene.

Dal sistema feudale dell'Europa occidentale il contratto di censo venne introdotto anche nelle colonie latinoamericane ed è tuttora contemplato dalla codificazione civile di diversi Paesi ispanoamericani.

  1. ^ a b W.N. Goetzmann, Denaro.
  2. ^ F. Piola Caselli, Debito pubblico e banca pubblica.

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